di Arnaldo Casali
La bugia più grande che ci hanno raccontato, in questo anno di pandemia, è che il Covid-19 abbia fermato tutto, sospeso le nostre vite. Che ci abbia, insomma, fatto perdere tempo.
Invece no. Il Coronavirus le nostre vite le ha stravolte, le ha riscritte, le ha ripensate. Ma non è stato e non sarà tempo perduto. Al contrario: per chi ha saputo raccogliere questa sfida, è stato un anno di crescita, un’occasione per imparare e sperimentare.
Sin dall’inizio abbiamo assistito a due modi di affrontare la tragedia, entrambi ottusi e figli della stessa cultura: uno è stato quello di fermare tutto, cancellare qualsiasi evento e chiudersi nella tristezza, aspettando che finisse. L’altro è stato quello di negarla, all’inizio tentando di continuare la nostra vita normale sotto lo slogan “il virus non ci fermerà”, poi sposando il negazionismo e il complottismo più ottuso.
Il denominatore comune di questi due atteggiamenti è l’idea che il virus sia un nemico da combattere, col quale si deve vincere o perdere. Coerente, dopotutto, con un pensiero violento e competitivo secondo cui anche la malattia non va curata ma sconfitta.
Il nostro è un festival che si occupa di dialogo: abbiamo continuato ostinatamente a parlare di pace anche quando – nel 2015 – alla vigilia dell’inaugurazione ci furono i terribili attentati di Parigi. Ebbene, abbiamo voluto mantenere questo atteggiamento nonviolento anche con il Covid-19: noi non vogliamo combattere contro il virus, noi vogliamo dialogare: sì, vogliamo dialogare con il virus, capire da dove viene e dove ci porterà.
Quella del virus che ci rende migliori è stata finora solo vuota retorica. La prima ondata non ci ha insegnato proprio nulla, né ai cittadini, né ai virologi né tantomeno ai politici, perché tutto quello che abbiamo fatto è stato cercare di superarla e dimenticarla nel più breve tempo possibile, per tornare quanto prima alla nostra presunta maledetta e disastrosa normalità, e ritrovarci poi a commettere gli stessi errori.
Noi no, noi non abbiamo mai inseguito la normalità: noi abbiamo fatto un festival eccezionale. Non solo non abbiamo cancellato l’edizione 2020, ma non ci siamo arresi all’idea di farne un’edizione in “tono minore”: abbiamo fatto, al contrario, l’edizione più grande e bella in assoluto. Non volevamo un surrogato della versione tradizionale, ma cogliere l’opportunità di fare qualcosa che andasse oltre, superando i limiti spaziali e temporali della forma a cui eravamo abituati.
Proprio in questi giorni, un anno fa, concludevamo l’esperimento del Festival online: mentre eravamo ancora chiusi in casa, avevamo rivisto insieme il meglio dell’edizione 2019 e l’avevamo commentata con ospiti collegati via web da ogni angolo del mondo.
Un’esperienza che abbiamo messo a frutto sei mesi dopo quando, a novembre, ad una settimana dall’inizio del festival siamo stati costretti a rinunciare al cinema per trasferire online tutti i film in concorso e tutti gli incontri.
Non abbiamo perduto niente, anzi: abbiamo raddoppiato gli appuntamenti ritrovandoci non una volta all’anno ma due – a maggio e a novembre – abbiamo raddoppiato i film, decuplicato gli spettatori, guadagnato sei mesi per vedere, con calma, tutte le opere e per organizzare un altro piccolo festival natalizio online. Abbiamo vissuto intensamente quest’ultimo anno, più intensamente dei quindici che lo hanno preceduto.
Se il festival lo abbiamo chiamato “Contagion” è perché lo abbiamo fatto con il virus, non nonostante il virus.
La parola “Contagio”, d’altra parte, ha la stessa radice di “contatto”, e il contatto è il primo passo verso la comunione. Noi vogliamo contagiare il mondo con l’amore per il cinema, in un momento in cui ce ne è disperatamente bisogno. Nella speranza che questa attesissima primavera possa non archiviare l’esperienza del Coronavirus, ma farci, finalmente, imparare la lezione, superare l’ottusità che abbiamo dimostrato fino per un anno, lasciare che questo dramma non attraversi invano le nostre vite ma riesca davvero a rigenerarle.
Direttore Artistico